RISCOPRIRE L'EUCARISTIA
LA CASULA E LA STOLA
Per celebrare l'Eucaristia il sacerdote indossa, sopra al camice, la casula e la stola.
La casula è il vestito molto ampio in cui è avvolto. Ha il colore del tempo liturgico e della festa celebrata: rosso, verde, bianco o viola. Si dice che faceva pensare ad una casa o ad una tenda, in cui il prete entra per il tempo dell'Eucaristia. è un invito, per lui e per i fedeli che lo vedono, ad entrare in un mondo nuovo: quello di Dio. Indossando la casula, il sacerdote si ricorda spontaneamente della parola di san Paolo: "Rivestitevi del Signore Gesù Cristo" (Rm 13,14).
La stola è una lunga striscia di tessuto abitualmente dello stesso colore della casula. Il sacerdote e il vescovo la fanno passare dietro il collo e la lasciano pendere sul davanti.
I diaconi la portano di traverso. è il segno distintivo che permette di riconoscere i ministri ordinati (vescovi, presbiteri e diaconi). Nella liturgia come nella vita di ogni giorno, il tipo di vestito che si porta non è cosa indifferente.
Il vestito dice già un po' quello che uno è; dice anche quello che uno fa. Per andare al lavoro alcuni portano i jeans, altri si mettono giacca e cravatta. Ci si immagina allora chi sono. La medesima persona, che si infila i jeans per partire in vacanza, apparirà vestita in doppio petto o in abito lungo con lo strascico il giorno delle nozze. A ogni circostanza il suo vestito.
Nella Messa la casula e la stola non sono dunque senza significato. La loro prima funzione è di segnalare a tutti che la prima persona che celebra l'Eucaristia è Cristo stesso. Se il celebrante indossa questo ampio vestito che lo ricopre totalmente, è per dire ai fedeli: "Ora dimenticate me un poco e fissate il vostro sguardo sul Cristo che rappresento e in nome del quale sto per agire e per parlare. è Lui, il Cristo, che in verità presiede la nostra celebrazione". Dovunque si celebra un'Eucaristia, il Cristo è presente. è presente nell'assemblea, nella sua Parola. è anche particolarmente presente nella persona del sacerdote. La casula e la stola ce lo ricordano.
IL ROSSO, IL VERDE, IL BIANCO...

In certi giorni il sacerdote indossa la casula e la stola di colore bianco. Altre volte si veste di rosso, di verde, di viola. In tutte le culture e in una infinità di manifestazioni quotidiane, noi facciamo uso della lettura simbolica del colore: pensiamo ai colori del semaforo: il rosso indica pericolo e obbliga a fermarsi, il verde dà via libera. Anche nella liturgia ogni colore porta il suo messaggio.
Il viola è per i giorni di astinenza e di digiuno. è il colore della Quaresima e del tempo di Avvento. Ci ricorda che non siamo ancora dei santi, che siamo sempre dei peccatori e che dobbiamo andare come Cristo nel deserto, privandoci del pane, per ritornare vicini a Dio e restargli fedeli. Si usa il viola anche per celebrare l'Eucaristia in presenza di un defunto.Il rosso ci fa pensare al sangue e al fuoco. Perché il sacerdote si veste di rosso, se non per ripetere che Cristo ci ha amati d'un amore così bruciante da morire sulla croce? Lo si usa la domenica delle Palme, il Venerdì Santo e la domenica di Pentecoste; nelle feste degli Apostoli e dei martiri, nella Confermazione.
Il bianco è un colore gioioso, dà subito una sensazione di pulito, di festa e di luce. In molte culture è il simbolo dell'innocenza (mani pure da ogni delitto), di festa e di gioia (il vestito della sposa), d'inizio di una vita nuova in Cristo (la veste bianca del battesimo). è il colore che si usa anzitutto nel giorno di Pasqua e durante ogni domenica del tempo pasquale. Esso canta la risurrezione di Cristo e la nostra risurrezione futura. Alla tavola del banchetto celeste, gli eletti sono vestiti di bianco. Viene poi usato nella celebrazione del Natale e dell'Epifania (la festa dell'apparizione del Salvatore e la festa della luce) e in tutte le grandi feste.
Rimane il verde: il verde delle nostre foreste, delle piante e dei prati, il verde che proclama la speranza e la vita. Quando vediamo il sacerdote venire avanti vestito di verde, questo ci fa pensare che siamo uomini e donne, cui è stata donata una grande speranza, che siamo un popolo in cammino, che Cristo guida verso i verdi pascoli della terra promessa. Lo si usa durante il tempo ordinario.

L'ALTARE

Conviene dire qualche parola sull'altare, perché è l'arredo più importante della chiesa.
L'altare viene collocato nel posto migliore. Tutto si organizza attorno ad esso, perché tutti lo vedano.
è normale che l'altare sia coperto d'una tovaglia molto bella. Niente è troppo bello per l'altare. In particolare nei giorni di festa è opportuno ornarlo di fiori, così acquisisce rilievo. Se l'altare è importante, è perché è il luogo per eccellenza in cui Dio e l'uomo s'incontrano, dove Dio viene incontro all'uomo e l'uomo va verso Dio.
L'altare è anche il luogo dove il sacerdote rende grazie insieme con tutti i membri dell'assemblea, ed è il punto in cui il pane diventa il corpo di Gesù e il vino il suo sangue.
Luogo del sacrificio, l'altare è anche il luogo del pasto. è la tavola a cui vanno i figli di Dio per nutrirsi e bere. Nel Nuovo Testamento si afferma che Gesù è la pietra angolare, sulla quale tutto poggia (Ef 2,20). L'altare - che è fatto di pietra o contiene abitualmente una pietra - rappresenta dunque Cristo. L'altare - scrive san Giovanni Crisostomo - ha questo di meraviglioso: pur essendo, per sua natura, una semplice pietra, viene santificato dal fatto che riceve il corpo di Cristo (Commento alla seconda epistola ai Corinzi, Omelia XX).
Se l'altare è così ricco di significato, non deve stupire che il sacerdote lo baci all'inizio della messa. è il suo primo gesto, prima di rivolgere ai fedeli una sia pur piccola parola. è un gesto di generazione verso Cristo e verso il suo sacrificio. Questo gesto di venerazione, talvolta accompagnato dall'incensazione, significa che tutto è riferito a Cristo: Lui, altare, sacerdote e vittima (cfr. Ebrei 4,1s; 9,14); Lui, che è presente in questa assemblea.
Solamente dopo questo bacio all’altare, così ricco di significato nella sua semplicità e nel suo silenzio, il celebrante, fratello in mezzo ai suoi fratelli, prende la parola e saluta l'assemblea.
Quando vediamo il sacerdote che bacia l'altare, uniamoci a lui. Anche noi veneriamo Cristo e veneriamo il suo sacrificio. Spesso, prima che la Messa cominci, perché non fissare il nostro sguardo sull'altare e pensare a tutto ciò che rappresenta?

IL SEGNO DI CROCE

segno_croce"Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo". La Messa comincia con il segno di croce. è uno dei più antichi segni cristiani, il segno per eccellenza dei cristiani. Quando facciamo il segno di croce, riconosciamo di appartenere a Cristo, manifestiamo la nostra fede in Cristo morto per noi sulla croce, esprimiamo la volontà di accogliere in noi tutta la ricchezza della croce e di unire la nostra vita a quella di Cristo morto in croce. La croce è segno di alvezza, di redenzione, di risurrezione, di speranza, di amore, di coraggio, di fedeltà, di dono di sé per la giustizia e la riconciliazione.
Il segno di croce ci ricorda il nostro battesimo, poiché siamo stati battezzati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Si invocano le tre Persone divine che ci hanno comunicato il loro amore e raggiunto con la loro benedizione mediante la croce di Cristo: con questo segno di salvezza siamo stati segnati nel battesimo e introdotti nel mistero di Dio.
Il segno di croce ci dice quello che andiamo a fare nella Messa la domenica. Andiamo ad offrire insieme con tutti i cristiani il sacrificio della croce e ad offrire anche noi stessi. Andiamo a unire la croce delle nostre vite con quella di Cristo. Qualcuno avrà osservato che la Messa comincia con il segno di croce, ma termina anche con un segno di croce.
Prima che tutti lascino la chiesa, il sacerdote si rivolge all'assemblea dicendo: Vi benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo. Poi con la mano destra traccia su tutti un grande segno di croce. La Messa è come rivestita dalla croce. Inizia con la croce e finisce con la croce.
Andiamo dunque a Messa per celebrare il mistero della croce. E, dopo la Messa, giorno dopo giorno, dobbiamo vivere sotto il segno della croce.
IL SIGNORE SIA CON VOI

Dopo aver fatto il segno di croce con l'assemblea, il sacerdote le rivolge un augurio. Sono proposte diverse formule, tra cui: Il Signore sia con voi.
Questa frase viene ripresa più volte durante la celebrazione dell'Eucaristia: prima di proclamare il Vangelo; all'inizio del dialogo che introduce la preghiera eucaristica; prima della benedizione finale.
Se la formula Il Signore sia con voi è proclamata quattro volte durante la celebrazione, vuol dire che la sua importanza è grande. Nella Presentazione generale del messale viene spiegato così il senso del saluto iniziale: Il sacerdote, salutando la comunità riunita, le manifesta la presenza del Signore. Questo saluto e la risposta del popolo manifestano il mistero della chiesa raccolta attorno al Signore (n. 28).
Per meglio cogliere il senso della formula, giova ricordare in quale modo l'angelo Gabriele si presentò a Maria per darle l'annuncio che sarebbe diventata madre del Figlio di Dio.Entrando da lei, disse: "Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te" (Lc 1,28). E utile
anche ricordare la promessa di Gesù ai suoi discepoli: Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Mt 18,20).
Fin dall'inizio della celebrazione il sacerdote invita dunque i membri dell'assemblea a prendere coscienza che formano un corpo, un popolo, di cui Cristo è il capo. Augura loro di rendersi conto pienamente che non sono soli a celebrare l'Eucaristia, ma che Gesù, loro
maestro e Signore, è realmente presente in mezzo a loro, per il semplice fatto che si sono riuniti nel suo nome, rispondendo alla sua chiamata.
Questa presa di coscienza è fondamentale e non deve mai essere dimenticata. Per questo il saluto viene ripetuto nei vari momenti chiave della celebrazione. Separata da Cristo l'assemblea sarebbe inadatta a rendere al Padre un'azione di grazie a lui accetta e sarebbe
incapace di rivolgergli domande che tocchino il suo cuore.
Se la formula di saluto si presenta sotto forma di augurio (Il Signore sia con voi) piuttosto che come affermazione (Il Signore è con voi), ciò significa che si implora, davanti a Dio, la realizzazione della promessa fatta da Gesù. Nella Messa ci capita spesso: si prega perché le
promesse di Dio si realizzino all'interno dell'assemblea.


… E CON IL TUO SPIRITO

Più volte durante la Messa il sacerdote si rivolge all'assemblea e le dice: Il Signore sia con voi. Tutti rispondono: E con il tuo spirito. Ci si può chiedere per quale motivo si risponde in modo così strano e oscuro ad un augurio di per sé chiaro e limpido. Gli inglesi, ad esempio, non complicano così le cose. Il sacerdote dice loro: The Lord be with you (Il Signore sia con voi), ed essi gli restituiscono l'augurio dicendo: And also with you (e anche con te).
Nessuna complicazione. Si capisce tutto! I nostri amici inglesi non hanno torto. La formula che usano corrisponde al significato che aveva in origine: E con il tuo spirito. Questa espressione infatti viene dall'ebraico. E in ebraico la parola spirito designa tutta la persona. Nella seconda lettera a Timoteo, san Paolo scrive: Il Signore Gesù sia con il tuo spirito(4,22); che significa: Il Signore sia con te. Ma con il passare del tempo la parola spirito ha cambiato significato.
Nel IV secolo, per esempio, san Giovanni Crisostomo ci dice che nella risposta E con il tuo spirito, la parola spirito designa lo Spirito Santo, senza del quale non si può fare niente, e che è stato comunicato al sacerdote in modo particolare, perché presieda l'Eucaristia a nome di Gesù. Con questa risposta - scrive san Giovanni Crisostomo - voi richiamate alla memoria che colui che è visibilmente presente non produce nulla, che i doni lì presenti non sono opera della natura umana, ma che il sacrificio mistico si compie per grazia dello Spirito che viene e tutto copre con le sue ali” (Omelia per la Pentecoste, 1,4). Quando rispondiamo: E con il tuo spirito, diciamo dunque al sacerdote: Lo Spirito che ti è stato dato il giorno della tua ordinazione sia con te e agisca in te, perché adempia bene il tuo ruolo di sacerdote. Come si vede, la formula italiana è ricca e bella. Bisogna concludere che, se gli inglesi non hanno torto con il loro And also with you, anche noi abbiamo ragione di rispondere E con il tuo spirito
L'ATTO PENITENZIALE: VESTIRE A FESTA IL PROPRIO CUORE

Un libro dell'Antico Testamento racconta che un giorno Dio si manifestò a Mosè. Mosè vide un cespuglio che bruciava, ma non si
consumava. Decise di avvicinarsi, ma si fece sentire allora la voce di Dio: Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa! (Es 3,5). Mosè comprese che non ci si poteva accostare a Dio in un modo qualsiasi. Capita lo stesso quando andiamo a incontrare Dio nella Messa. Non possiamo presentarci senza il modo dovuto. Dobbiamo vestire a festa il nostro cuore. C'è un rito particolare per fare ciò: l'atto penitenziale, che si svolge in tre tempi.
Primo tempo: facciamo silenzio e ci mettiamo davanti a Dio.
Prendiamo coscienza di chi è Lui e di chi siamo noi, di ciò che Egli aspetta da noi e di ciò che noi facciamo. Tra il Vangelo da vivere e ciò che noi viviamo c'è sempre una distanza.
Secondo tempo: ci riconosciamo peccatori e domandiamo a Cristo di usare misericordia con noi.
Terzo tempo: preghiamo, perché ci venga accordato il perdono divino: Dio onnipotente abbia misericordia di noi.
Il rito penitenziale non è fatto per colpevolizzarci, ne per demoralizzarci. Il suo scopo è di essere un
aiuto per metterci in modo realistico e vero davanti a Dio. Dio è il Santo dei santi e noi non siamo santi per niente. Il rito penitenziale esiste anzitutto e principalmente per aprirci all'amore misericordioso del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Se durante questo rito confessiamo i nostri peccati, a voce più alta ancora confessiamo la tenerezza e il perdono di Dio. E Dio ci manifesta la sua misericordia e fa che il nostro cuore sia vestito a festa.
Possiamo allora celebrare l'Eucaristia con il cuore in pace, in gioia, in festa.

IL PIU BEL CANTO CRISTIANO GIUNTO FINO A NOI

è stato scritto che il Gloria è il più bello, il più popolare e il più antico canto cristiano giunto fino a noi.
è veramente magnifico il Gloria. Un Gloria gioioso e travolgente, un Gloria cantato in coro, con tutto il cuore, un Gloria pieno di slancio e di brio è veramente bello.
Il Gloria ha una storia molto lunga. All'inizio fu cantato dai cristiani dei primi secoli al momento della preghiera del mattino fatta sia in privato sia in gruppo.
Ma i cristiani amavano talmente il Gloria che si decise di introdurlo nella Messa.
Dapprima fu cantato solamente nella Messa di Natale. Si comprende il perché: le parole dei primi due versi del Gloria corrispondono alle parole cantate dagli angeli nella notte in cui Gesù è nato. E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva: Gloria a Dio”Lc2,13-14).
Tuttavia ciò fu ritenuto insufficiente; si permise dunque ai vescovi di cantare il Gloria nei giorni di grande festa. Poi si accordò il medesimo favore ai preti. Da molto tempo si canta il Gloria tutte le domeniche, eccetto durante l’Avvento e la Quaresima.
Perché non potremmo recitare ogni mattino il Gloria a Dio? è quello che facevano i primi cristiani e si trovavano bene.
UN CANTO CHE DA IL TONO

Il Gloria si rivolge al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. è trinitario, anche se lo Spirito vi è soltanto menzionato.
Tutto comincia con le Lodi indirizzate a Dio Padre. Sono molte: “Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie”. Quasi tutto il vocabolario della lode vi è rappresentato. Seguono poi delle domande molto semplici presentate al Figlio: Abbi pietà di noi... accogli la nostra supplica....Bisogna notare come queste domande sono inserite in una quantità di parole e di espressioni che dicono chi è Cristo, ciò che fa, ciò che è diventato. Il Signore, l'Agnello di Dio, il Figlio del Padre, il Signore Dio. Toglie i peccati del mondo e siede alla destra del Padre. è il solo santo, il solo Signore, l'altissimo.
Ciò che colpisce nel Gloria è il suo carattere gioioso. è pieno di vivacità, mette il cuore in festa, dà il tono a tutta la Messa.
La Messa non è, non deve essere qualcosa di triste. è un'azione gioiosa nel suo profondo.
Si viene a Messa per render grazie a Dio, per lodarlo, glorificarlo, ringraziarlo, celebrarlo. Questo fa il Gloria fin dal principio della Messa. In modo ancor più esplicito lo si farà nella grande preghiera Eucaristica. Il Gloria è come un pregustare la preghiera Eucaristica. Cantare con entusiasmo un Gloria insieme ad altri cristiani non può essere che motivo di gioia e di conforto.
NON DIMENTICHIAMOCI DI CANTARE

Probabilmente ci piace che un solista canti in chiesa. Se ha una buona voce e un tono orante, ci aiuta a pregare. Apprezziamo anche la ricchezza e la bellezza dei canti eseguiti dal coro che contribuiscono allo splendore della celebrazione.
Ma durante l'Eucaristia capita anche che siamo noi invitati a cantare. Che facciamo allora? Cantiamo? Cantiamo abbastanza forte che il nostro vicino ci senta? Cantiamo di tutto cuore? Non diciamo che non sappiamo cantare, che non conosciamo la musica, che abbiamo la voce rauca, che ci distrae dalle nostre preghiere. Non è serio! Non siamo soli alla Messa; siamo con altri cristiani ed è tutti insieme che ci presentiamo davanti a Dio. Tutti insieme dobbiamo pregare, cantare, acclamare, offrire, render grazie. Che durante la Messa ci sia data la possibilità di pregare a tu per tu con il Signore, è normale e indispensabile. Ma bisogna anche che preghiamo insieme con tutti gli altri. La Messa e un'azione comunitaria, è un gesto di chiesa. Si elebra l'Eucaristia insieme; non si viene alla Messa per fare gruppo a parte. Non c'è nulla meglio del canto per esprimerci tutti insieme davanti al Signore. Nulla meglio del canto per essere saldati gli uni agli altri, per essere un cuore solo e un'anima sola. Non dimentichiamo di cantare, quando siamo invitati a farlo!

AMEN

A più riprese durante la Messa rispondiamo “Amen” alle preghiere che il sacerdote pronuncia a nome di tutta l'assemblea:
- ... e ci conduca alla vita eterna. -
Amen.
- ... per tutti i secoli dei secoli. -
Amen.
- ... Il Corpo di Cristo. -
Amen.

“Amen” è una parola ebraica. Proviene da una radice ebraica, la stessa della parola “credere” (verbo AMAN = ancorarsi, appoggiarsi) che contiene l’idea della sicurezza, della stabilità. è la parola più breve, più frequente e più importante della partecipazione del popolo alla celebrazione eucaristica. Gli ebrei l'adoperavano regolarmente per terminare le loro preghiere. Anche Cristo se n'è servito: non solamente quando pregava, ma anche quando insegnava. “Amen, amen - in verità, in verità - vi dico….”. è una formula che ritorna spesso nei Vangeli. Una volta alla fine delle preghiere si diceva Così sia. Oggi si preferisce dire “Amen”, come facevano i credenti dell'Antico Testamento, come hanno fatto Gesù e i primi cristiani.

Il motivo per cui si è ritornati all'“Amen”, è perché “Così” sia non traduce tutta la ricchezza della parola “Amen”. Quando si dice “Amen” non si esprime solamente un augurio (Così sia!), ma si afferma una certezza. è il caso di quando il sacerdote pronuncia la formula: “Il Corpo di Cristo”, e il fedele risponde: “Amen”. Questo “Amen” vuol dire: “Sì! Credo che Cristo viene a me sotto il segno del pane”. è una certezza! Di più, quando rispondiamo “Amen” alla preghiera del sacerdote, il nostro “Amen” non significa solamente “Che avvenga così!”. Significa anche che facciamo nostra questa preghiera e vi aderiamo con tutto il nostro cuore.
Amen! Una parola molto ricca di significati, che è stato giusto rimettere in onore.

IL RITO D'INIZIO: un tempo per riunirsi, raccogliersi ed entrare in preghiera

Il rito d'inizio della Messa, di cui abbiamo parlato finora, comprende molti piccoli riti: il canto e la processione d'ingresso, il saluto e il bacio all'altare, il segno di Croce, il saluto del celebrante, l'atto penitenziale, il Gloria e la preghiera del giorno.
Non basta conoscere il senso di ciascuno di questi riti presi singolarmente. Bisogna anche vedere come formano un tutto e conoscere il loro significato globale.
A che cosa serve il rito d'inizio?
Si può rispondere: a far sì che le persone venute alla Messa:
- si riuniscano,
- si raccolgano in sé,
- entrino in preghiera.
Le persone si riuniscono. Non vengono alla Messa per restare una a fianco dell'altra, ma per formare un'assemblea. Non un'assemblea qualunque, ma un'assemblea strutturata, organizzata. Un'assemblea che è segno della chiesa di Gesù Cristo. Darsi la mano entrando in chiesa, cantare insieme, fare su di sé il segno di Croce: sono altrettanti comportamenti che per loro natura ci fanno prendere coscienza che siamo fratelli e sorelle in Gesù Cristo e che ci siamo riuniti per compiere un'azione comune.
Le persone si raccolgono in sé. Niente di più normale, perché stanno per ascoltare tra poco la Parola di Dio e aderirvi. In seguito si uniranno a Cristo, per offrire il sacrificio insieme con lui. Così stanno per partecipare all'azione di grazie che il Risuscitato compie eternamente verso il Padre. è necessario dunque un tempo di raccoglimento interiore, per disporsi a vivere un tale mistero. In modo particolare l'atto penitenziale ha il compito di aiutare i fedeli a rendersi conto che sono alla presenza di Dio e che devono vestire a festa il cuore, per partecipare degnamente all'azione che incomincia.
Le persone entrano in preghiera. Pregano già quando tracciano sopra di sé il segno di Croce e quando cantano il Gloria. Pregano ancora quando si associano alla preghiera del giorno, pronunciata dal celebrante. Tutto il rito d'inizio è entrare nella preghiera.

UN DIO CHE PARLA
Il Dio in cui crediamo non è un Dio muto. Entra in contatto con gli esseri che ha creato e parla a loro. Dio si rivolge in modi molto vari ai suoi interlocutori.
Si rivela nella natura e negli avvenimenti, che dicono molto di lui. Raggiunge sempre le persone nel più profondo del loro essere, nel silenzio della loro coscienza. Si esprime mediante lo Spirito che abita nel cuore dei credenti.
Senza dubbio occorrono molta attenzione e raccoglimento per intendere questa voce intima di Dio che si fa sentire dentro di noi. Perciò Dio, a più riprese, si è espresso in modo più esplicito.
L'autore della lettera agli Ebrei evoca questi interventi quando scrive: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo” (Eb 1,1-2).
Tutte le parole di Dio sono preziose. Perciò sono state coscienziosamente raccolte e compilate nella Bibbia. Questo libro è per la chiesa il suo punto di riferimento. Di esso si nutre costantemente. è per lei una sorgente, una luce, un conforto, un pane saporoso.Non deve stupire dunque che nella celebrazione dell'Eucaristia la proclamazione della Parola di Dio tenga un posto preponderante.
Dopo il rito d'inizio viene la liturgia della Parola, il tempo in cui il Signore parla al suo popolo.
Egli sta per manifestarsi chiaramente agli uomini e alle donne venuti a incontrarlo. Sta per parlare ad essi senza mezzi termini. Vuole dire qual è il progetto che ha immaginato per loro. Vuole raccontare ciò che ha compiuto dai tempi antichi in poi per quelli che ama, e di
nuovo vuole esprimersi mediante suo Figlio che non cessa di proporre al mondo il suo Vangelo. Quando Dio si mette
a parlare così, è un tempo di grazia che comincia.

DIO PARLA … SAPPIAMO ASCOLTARE?
C’è una cosa durante la Messa che non è normale. Molto spesso si vedono dei lettori che proclamano la Parola di Dio... e nessuno li ascolta. Tutti hanno gli occhi fissi sul loro foglietto. Non ascoltano veramente. Leggono!
Quando eravamo giovani, i nostri genitori ci dicevano spesso: “Quando qualcuno ti parla, ascolta”. Ogni volta che un lettore o una lettrice prende la parola in chiesa, si dovrebbe dunque ascoltarli. I motivi che vengono regolarmente addotti per leggere un testo nel medesimo momento in cui un lettore lo proclama, sono ben conosciuti: “I lettori non sono bravi - si dice - pronunciano male e non abbastanza forte... parlano confusamente. Si ha l'impressione che non capiscano quello che leggono...”.
Talvolta è proprio cosi. Allora si capisce che c’è veramente molto poco da ascoltare. Si capisce anche che quando una persona comincia a essere dura d'orecchi, ha bisogno di avere il testo sotto gli occhi. Ma non è questo il problema.
Quando il lettore adempie la sua funzione in modo conveniente, quando ha una buona voce, una buona dizione, un'intonazione giusta... e quando inoltre legge in modo intelligente, dovremmo mettere da parte il nostro foglietto e ascoltare. Far nient'altro che ascoltare.
Ascoltare la Parola di Dio senza averla sotto gli occhi è un'esperienza unica, ben diversa da quella d'ascoltare leggendo ciò che viene proclamato.
Almeno di tanto in tanto dovremmo fare questa esperienza di un ascolto totale della Parola di Dio che viene proclamata. Ascoltiamo fissando lo sguardo su colui che parla. Ascoltiamo talvolta con gli occhi chiusi.
Ascoltiamo con tutte le nostre orecchie, con tutto il nostro cuore, con tutto il nostro essere.
è Dio che parla! Merita che lo si ascolti veramente. Lo scritto è segno di lontananza e di separazione e l’ascolto è segno di vicinanza e di comunione.

COME UN'ECO
Quando qualcuno ci parla, è normale rispondergli.
Se non lo si fa, è una mancanza di cortesia.
Quando Dio parla al suo popolo, è giusto che il popolo gli risponda. è quello che avviene nella Messa.
Dopo la proclamazione della prima lettura, si recita o, meglio, si canta un salmo: il salmo “responsoriale”.
L'aggettivo stesso dice che si tratta di un salmo concepito come risposta alla Parola di Dio appena ascoltata, come una risposta a Dio stesso che si è espresso in un testo dell'Antico Testamento.
Alcune persone trovano che il salmo è difficile da capire. In certi casi è vero. La difficoltà viene spesso dal fatto che non si coglie bene come il salmo si situa in rapporto alla prima lettura. Ecco dunque una chiave che potrà aiutare a cogliere meglio il senso e la funzione del salmo.
Il salmo è strettamente legato alla prima lettura. Si presenta come un'eco di essa. Il salmo e, in particolare, il ritornello ripetono per lo più una o l'altra delle parole che sono state proclamate. Vuole dire che il popolo risponde a Dio riutilizzando le sue parole appena ascoltate.
Se, per esempio, nella prima lettura si dice: “Vedete com’è buono il Signore”, nel salmo e nel suo ritornello l'assemblea canterà: “Il Signore è buono e grande nell'amore”.
Se nella prima lettura si invita ad ascoltare la voce di Dio e a seguire i suoi insegnamenti, il ritornello del salmo potrà essere facilmente questo: “Fa' che ascoltiamo, Signore, la tua voce”.
Il testo della prima lettura e quello del salmo si richiamano l'un l'altro. è come se, nella prima lettura, Dio dicesse al suo popolo: “Vedete come vi amo; vedete quello che ho fatto per voi”. E il popolo, nel salmo, rispondesse: “Sì, è vero che ci ami, è vero che hai compiuto per noi cose meravigliose”. Si può paragonare la prima lettura e il salmo ad un dialogo amoroso.

IL RITORNELLO DEL SALMO
Il ritornello del salmo responsoriale è un testo molte breve che l'assemblea intera di norma deve cantare. La sua importanza è più grande di quello che può sembrare a prima vista. Il ritornello introduce il salmo e gli dà il suo colore, a seconda se è utilizzato per questa o per quella festa, per un tempo liturgico o per un altro. Si capisce quindi che a Natale il ritornello del salmo ci faccia cantare: “Oggi la luce risplende su di noi”; che la domenica di Pasqua al mattino proclami: “Questo è il giorno di Cristo Signore, alleluia”; e che in una domenica di quaresima sia formulato così: “Fa' che ascoltiamo, Signore, la tua voce”. Il ritornello del salmo è abitualmente recitato (ma dovrebbe essere cantato!) almeno all'inizio e alla fine dei vari versetti del salmo. è cosa buona riprenderlo dopo ogni versetto. Lungi dall'essere inutile,
questa ripetizione aiuta ad accogliere profondamente dentro i nostri cuori il messaggio proclamato. Sarebbe bello sapere a memoria parecchi ritornelli dei salmi per canticchiarli o ripeterli non soltanto in chiesa, ma dovunque andiamo: a casa, sul lavoro, in auto, in treno. I ritornelli sono spesso molto belli e utili per rivolgere lo spirito a Dio. San Giovanni Crisostomo diceva a riguardo dei ritornelli dei salmi: “Non cantiamoli per abitudine, ma prendiamoli come bastone da viaggio. Ogni versetto può insegnarci molta saggezza”.

ALLELUIA

Tutti i popoli hanno il loro modo di manifestare la gioia e di acclamare i loro eroi. Nel nostro mondo occidentale c'è l'abitudine di alzarci in piedi, di
applaudire e gridare “urrah”, e “bravi”. Anche la liturgia ha il suo modo per acclamare e adopera delle parole particolari per farlo.
La più preziosa, la più tradizionale e certamente la più ricca è “Alleluia”.
“Alleluia” è composto da due parole ebraiche: “allelu”, che vuol dire “lodate”, e “ja”, una abbreviazione di Jahvè, cioè Dio.
La parola Alleluia significa dunque: “Che Dio sia lodato!” oppure: “Lode a Dio!”.
Nel libro dell'Apocalisse si dice che nel cielo i santi rendono gloria a Dio cantando “Alleluia” senza mai stancarsi (19, 1.3.4). Non può stupire
dunque che da molto tempo nella nostra liturgia si adoperi anche la parola “Alleluia”.
A questo riguardo è interessante sapere che l'Alleluia è stato cantato dapprima durante la notte pasquale, prima di proclamare il Vangelo della risurrezione. Ancor oggi lo si canta nel medesimo momento durante la veglia pasquale, con una solennità tutta particolare.
Niente di più normale, perché se c'è un motivo di lodare Dio, è proprio quello di aver risuscitato Gesù, di averlo fatto passare dalla morte alla vita.
Eccetto il tempo di Avvento e di Quaresima, che sono tempi di austerità, si canta l'Alleluia nella Messa, prima di proclamare il Vangelo.
Il senso di questo “Alleluia” è molto chiaro. Si tratta di acclamare Dio come un eroe. è come se si dicesse: “Sii lodato Dio, perché il Figlio tuo ci viene a parlare nel Vangelo! Lode a te per la gioiosa notizia del Vangelo! Lode a te per le parole di vita e di luce che stiamo per ascoltare!”.
“Acclamazione” è sinonimo di grido di gioia, di festa.
Un’acclamazione recitata perde il suo significato e la sua funzione. A nessuno è mai venuto in mente, in qualche cerimonia civile, di recitare l’inno nazionale perché non si può cantare!
Tant’è vero che le norme del Messale dicono che quando il versetto e l’Alleluia non si cantano, si possono tralasciare.

IN PIEDI PER IL VANGELO
Durante la Messa siamo seduti alla proclamazione della prima e della seconda lettura. Lo stesso avviene durante il canto o la recita del salmo responsoriale. Ma ci alziamo in piedi quando comincia l'Alleluia e restiamo in piedi durante l'annuncio del Vangelo.
Perché si sta seduti durante le prime due letture e si sta in piedi per il Vangelo? È facile rispondere a questa domanda. Si può dire che ci alziamo in piedi per la proclamazione e l'ascolto del Vangelo, perché questa lettura è più importante delle altre. Giustissimo. I Vangeli contengono le parole stesse di Gesù. È Gesù in persona che si rivolge a noi, quando si leggono i Vangeli in chiesa. Essi tengono viva la memoria dei fatti e dei gesti di Gesù. Restando in piedi durante questa lettura, manifestiamo la grandissima venerazione che abbiamo per Gesù, per le sue parole, per tutto quello che ha fatto. Si può aggiungere, inoltre, che stare in piedi è un
segno di salute e di vita, un segno di dignità e di vittoria.
I vinti e i morti sono per terra. I vivi e i vincitori sono in piedi. In generale la posizione in piedi dice che, grazie a Gesù, siamo degli esseri riscattati, risuscitati, salvati. Con la sua vittoria sulla morte e il peccato, Gesù ha fatto di noi degli esseri in piedi. Le parole del Vangelo sono per noi parole di salvezza, dunque è giusto
essere in piedi mentre sono proclamate. Queste parole ci fanno passare dalla morte alla vita. Ci fanno esseri viventi. Grazie all'effetto che hanno in noi, possiamo stare saldamente in piedi e camminare coraggiosamente e con gioia verso la terra promessa, verso il regno di Dio. Essere in piedi! Un segno di rispetto. In piedi: la posizione dei risuscitati. In piedi: l'atteggiamento dei cristiani, che sanno di essere diventati figli e figlie di Dio per mezzo di Gesù.

LODE A TE, O CRISTO
Di solito, per indicare la fine della prima o della seconda lettura appena proclamata, il lettore pronuncia la frase: “Parola di Dio”. Tutti rispondono:
“Rendiamo grazie a Dio”. Al momento della lettura del Vangelo, si procede con maggiore ampiezza. A causa della sua importanza, questo testo è preceduto da un annuncio solenne: “Dal Vangelo secondo Giovanni, o Luca …”. Il popolo risponde: “Gloria a te, Signore”. Alla fine della proclamazione, il sacerdote o il diacono conclude dicendo: “Parola del Signore”, cui segue la risposta dell'assemblea: “Lode a te, o Cristo”. E facile notarlo: ogni volta la nostra lode si rivolge a qualcuno: a Dio, al Signore, a Cristo. Anche se hanno preso la parola, non sono il signor X o la signora Y, il reverendo parroco o il diacono che ricevono gli omaggi, ma è sempre Dio stesso o suo Figlio Gesù. Il concilio Vaticano II ha messo bene in evidenza questa realtà fondamentale: quando si legge la Scrittura nella messa, è Dio che parla, è Cristo che si fa sentire. “Cristo è presente nella sua parola - è scritto nella costituzione sulla liturgia (n. 7) - poiché è Lui che parla mentre vengono lette in chiesa le Sacre Scritture”. Questa affermazione è ben lungi dall'essere banale. Attira la nostra attenzione sul fatto non solamente che i testi della Bibbia sono di una estrema attualità, ma sul fatto che ancor oggi Dio s'impegna personalmente nella sua Parola. Viene Lui stesso a ridarle vita e a farla risuonare nel cuore della nostra assemblea. Il lettore o la lettrice presta la sua voce a Dio, ma è veramente Dio che parla. Questa presenza di Cristo nella sua Parola è reale - benché in modo diverso - tanto quanto la sua presenza sotto i segni del pane e del vino.

UNA PAROLA EFFICACE
“Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata”. Questo testo, preso dal libro del profeta Isaia (55,10-11), si applica alla Parola di Dio che viene proclamata in chiesa. Questa Parola non è mai una parola vuota, ma piena di sostanza. Non si disperde nel vento, ma è efficace.
Tutto ciò che annuncia, lo può compiere.
La Parola di Dio possiede questa capacità di illuminare, confortare, dare gioia, trasformare, rinvigorire, consolare, guarire, nutrire, far rivivere, donare coraggio e pazienza, portare pace e rendere il credente forte e fedele nei momenti difficili. Sì, è una parola efficace. Ma questa efficacia non è automatica. È necessario adempiere ad una condizione, perché si realizzi. La condizione è che l'ascoltatore, uomo o donna, si lasci raggiungere dalla Parola, le apra il cuore, le dia la possibilità di agire, si lasci pervadere da essa. La parabola del seminatore è attuale ogni giorno. Anche nella nostra epoca, come ai tempi di Gesù, la Parola cade in terreno roccioso, sulle spine o sulla buona terra (Mt 13,3-9.18-23).
Se qualcuno ascolta la Parola di Dio con un orecchio disattento, non accadrà niente. Se l'ascolta attentamente, ma senza credere a ciò che dice, non accadrà niente. Se i suoi orecchi sono aperti, ma il cuore è chiuso, anche allora non accadrà niente. Se trova che la Parola di Dio si applica meravigliosamente agli altri, ma non a se stesso, non gli servirà a niente.
La Parola di Dio è efficace, senza dubbio. Ma ciascuno può impedire che lo sia per lui e dentro di lui. Dio ha dato alla sua creatura questo potere di mettere ostacoli alla sua Parola.

DALLA GENESI ALL'APOCALISSE
La Genesi è il primo libro della Bibbia, l'Apocalisse l'ultimo. Il libro della Genesi parla della creazione, il libro dell'Apocalisse s'interessa molto alla fine dei tempi. Oltre a questi due libri, la Bibbia comprende tutti i libri dell'Antico e tutti quelli del Nuovo Testamento.
In totale 72 libri: 27 per il Nuovo, 45 per l'Antico Testamento. Di domenica in domenica, in chiesa si legge qualche brano di uno o dell'altro di questi libri. Occorrono tre anni per completare l'insieme delle letture (anche se non tutte le pagine della Bibbia vengono lette).
Non basta che i libri siano letti. Non basta far risuonare le parole di Dio che contengono.
Bisogna anche che quelli che ascoltano la Scrittura, vi aderiscano. Alla Parola di Dio, che viene proclamata, deve corrispondere la nostra parola di credenti, che riconoscono la veracità, la bellezza e la ricchezza di ciò che Dio dice. Durante la Messa, uno dei momenti più espliciti e più forti di adesione alla Parola di Dio è la proclamazione del Credo o del Simbolo. La parola simbolo viene dal greco e significa “mettere insieme” o “riassumere”. Il Simbolo o Credo mette insieme e riassume l'essenziale della Parola di Dio contenuta nella Bibbia. Proclamando il Credo, i cristiani esprimono la loro adesione e la loro fede in tutto
quello che è contenuto nella Scrittura, dal libro della Genesi a quello dell'Apocalisse. È interessante notare che l'inizio del Credo evoca in modo particolare il contenuto del libro della Genesi, poiché parla della creazione (“Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra...”). La conclusione del Credo si riferisce specialmente al libro dell'Apocalisse, poiché si parla della fine dei tempi (“Credo... la risurrezione della carne, la vita eterna. Amen”). Proclamare il Credo è dunque dire di sì a tutta la Parola di Dio, a tutta la rivelazione, all'intero contenuto della Bibbia. Dicendo “Credo in Dio… “non intendo semplicemente: credo che Dio esiste, ma: credo in Lui, cioè mi dono, mi abbandono, mi affido, aderisco a Lui. Il Credo ha la sua origine nella triplice interrogazione e nella triplice risposta che veniva fatta al catecumeno (adulto) prima del battesimo (e che nel caso del battesimo di bambini viene fatta ai genitori e padrini). Recitare il Credo è un segno di riconoscimento della fede di tutti i cristiani e nello stesso tempo il ricordo a ciascuno del proprio battesimo.

“OGGI SI COMPIE QUESTA PAROLA”
Dopo la proclamazione delle letture, il sacerdote pronuncia l'omelia. “Omelia” vuol dire discorso semplice; è un prendere la parola in modo familiare. Circa nell'anno 150 san Giustino spiegava in questi termini che cos’era l'omelia: “Quando il lettore ha terminato le letture, colui che presiede prende la parola ed esorta a imitare questi buoni insegnamenti”(Apologia 1,67). Un'omelia ben fatta dovrebbe riscaldare il cuore e risvegliare il coraggio dei credenti. Stimolare a mettere in pratica il Vangelo. Far vedere com'è bello e giusto camminare dietro a Gesù Cristo. Un esempio straordinario di omelia ci è stato dato da Gesù stesso. Si era nella sinagoga in giorno di sabato, racconta l'evangelista san Luca (4,16-22). Gesù fu invitato a leggere la Scrittura e poi a commentarla, cioè a fare l'omelia. Dopo aver letto quel brano d'Isaia dove è scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me... mi ha mandato per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista. Mi ha mandato per rimettere in libertà gli oppressi” (Is 61,1-2), Gesù si espresse in questi termini:
“Oggi si è adempiuta questa Scrittura, che voi avete udito con i vostri orecchi”.
Eccellente omelia! Breve, incisiva, avvincente da ascoltare. Certamente nessuno ha rischiato di addormentarsi! Peccato non sia ripetibile! L'omelia ha per scopo di annunciare buone notizie alle persone venute a celebrare l'Eucaristia. Mira a far vedere che tutto ciò che Dio ha realizzato nel passato per il bene del mondo, lo realizza ancor oggi. Deve ravvivare la speranza e dare il gusto di vivere. Non è facile essere bravi a fare l'omelia. Ma perché l'omelia sia buona e se ne tragga profitto, bisogna che ciascun fedele vi metta qualcosa di suo. Un giorno una buona e santa donna diceva ad un sacerdote: “Anche quando l'omelia è veramente banale, mi sforzo di cercare una parola, un'idea che mi tocchi e m'interpelli... e ne trovo sempre!”. In conclusione: l'omelia è prima di tutto un compito del sacerdote, certamente. Ma, almeno in parte, è anche compito di quelli che ascoltano.
Ciascuno deve fare il suo pezzo di strada.

LA LITURGIA DELLA PAROLA:UN DIALOGO TRA DIO E IL SUO POPOLO
Abbiamo fatto qualche riflessione su ciascuno dei riti della liturgia della Parola: etture, salmo, acclamazioni, omelia, professione di fede e preghiera universale...
Terminiamo con una piccola sintesi, interrogandoci con la domanda seguente: perché vengono messi in opera questi riti? Qual è il loro intento profondo?
La risposta a questa domanda è semplice: la liturgia della Parola ha lo scopo di stabilire un dialogo tra Dio e il suo popolo. Lo si vede chiaramente quando si esamina come è organizzata questa parte della Messa. Da una parte c'è Dio che parla, dall'altra l'assemblea che risponde. Nel momento in cui si proclamano le letture, evidentemente è Dio che si esprime. È ancora Lui che parla quando il sacerdote fa l'omelia, poiché questa ha per funzione soprattutto di far vedere l'attualità e la pertinenza della Parola di Dio. Invece quando si canta il salmo o lo si legge, è l'assemblea che risponde a Dio.
Le acclamazioni (Gloria a te, Signore, o Lode a te,
o Cristo) sono anch'esse risposte date alla Parola.È chiaro che la professione di fede, recitata insieme dai fedeli, costituisce una risposta esplicita e solenne a quello che Dio ha annunciato.
Anche la preghiera universale deve essere considerata come una risposta alla Parola. In questo caso il popolo risponde domandando che quello che è stato annunciato si realizzi a vantaggio di tutte le persone che vivono sulla terra.
La liturgia della Parola è dunque strutturata in modo che ci sia una proposta da parte di Dio e una risposta da parte dell'assemblea.

LE DUE MENSE
Nella Messa c'è un solo altare, ma ci sono due mense: la mensa della Parola e la mensa del sacrificio, la mensa dove viene proclamata la lieta notizia della salvezza e quella dove Cristo si dona per il compimento della nostra salvezza. Se si parla dell'altare come di una mensa, il motivo evidente è perché vi è deposto il pane e il vino, nutrimento e bevanda. Ma si deve parlare anche della mensa della Parola, perché la Parola di Dio si mangia come il pane e si beve come acqua pura.
Nel deserto Gesù ha detto: “Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4). Molto impressionante è anche quel testo in cui Dio domanda al profeta Ezechiele di mangiare il libro della Parola di cui deve annunciare il messaggio: “Il Signore mi disse: "Figlio dell'uomo, mangia ciò che hai davanti, mangia questo rotolo, poi va' e parla alla casa d'Israele” (Ez 3,1). È interessante notare che Cristo, che si dona come cibo sotto il segno del pane, si chiama il
Verbo: la Parola! Ciò significa che è buono da mangiare, come è buona ogni parola che viene da Dio. Per assimilare pienamente Cristo e diventare suoi intimi, bisogna nutrirsi sia della Parola come del pane. La Parola e il pane si completano l'un l'altro. Tutti e due sono necessari.
Nella Messa c'è dapprima il tempo della Parola, poi viene quello del pane. Questi due tempi si richiamano reciprocamente. Quando ascoltiamo la Parola e l'accogliamo nei nostri cuori, ci comunichiamo già al corpo di Cristo. Quando portiamo alla bocca il pane consacrato, ci nutriamo nuovamente del Verbo di Dio.
La liturgia della Parola è il primo tempo dell'alleanza che l'Eucaristia viene a stringere tra Dio e il suo popolo. La liturgia del pane è il secondo tempo. Ma c'è una sola alleanza, una sola Eucaristia, come ha affermato chiaramente il concilio Vaticano II: “La liturgia della Parola e la liturgia eucaristica sono congiunte tra di loro così strettamente da formare un solo atto di culto” (Costituzione sulla liturgia, n. 56).

I QUATTRO TEMPI DELLA LITURGIA EUCARISTICA
Dopo la liturgia della Parola, che termina con la preghiera universale, inizia la liturgia eucaristica. Questa parte della Messa comporta quattro tempi, che corrispondono alle quattro azioni compiute da Cristo la sera dell'ultima cena.
Cosa dicono i Vangeli a questo riguardo? Affermano che Gesù prese anzitutto del pane, poi che un po' più tardi prese del vino. Prendere del pane e del vino nelle sue mani è la prima azione compiuta da Gesù. Facciamo la stessa cosa nella Messa. Portiamo all'altare del pane e del vino e il sacerdote, come Gesù, li prende nelle sue mani. Questa prima parte della liturgia Eucaristica si chiama “Offertorio” o “Preparazione dei doni”.
Dopo aver preso il pane e il vino, Gesù li benedisse o, secondo un altro termine impiegato nei Vangeli, rese grazie sopra di essi. Facciamo la stessa cosa durante la Messa.
A nome nostro, a nome di tutta la Chiesa e in unione con Gesù, il sacerdote pronuncia una lunga preghiera con la quale benedice il pane e il vino, rendendo grazie su di
loro. Questa seconda parte della liturgia eucaristica si chiama “Preghiera Eucaristica”.
Dopo aver benedetto il pane, Gesù lo spezzò in tanti pezzi quanti erano i discepoli. Anche il sacerdote, come Gesù, sta per spezzare il pane. Una volta, con l'aiuto dei diaconi, spezzava diversi pani in molti pezzi. Oggi si limita molto spesso a spezzare soltanto la grande ostia, anche se sarebbe più giusto e più significativo che ogni fedele ricevesse un “pezzo” del pane consacrato e non semplicemente una particola. Questa terza parte della liturgia eucaristica si chiama “Frazione del pane”.
Infine, dopo aver spezzato il pane, Gesù lo distribuì ai suoi discepoli. Fece anche passare la coppa del vino in mezzo a loro. È il “Rito della Comunione”.
Corrisponde alla quarta azione compiuta durante l'ultima cena. “Fate questo in memoria di me”, aveva detto Gesù.
Duemila anni dopo la sua morte e risurrezione noi siamo fedeli al suo comando. Rifacciamo esattamente quello che ci ha detto di fare.

PRESE IL PANE
Durante l'ultima cena Gesù prese del pane. Anche noi ne prendiamo per celebrare l'Eucaristia. Prendere il pane non è un gesto puramente utilitario, ma un gesto ricco di senso e profondamente simbolico.
Per scoprire il senso di questo gesto, la cosa più semplice è di riferirci alla preghiera che il sacerdote pronuncia quando prende il pane nelle sue mani.
“Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane...”. Sono le prime parole che il sacerdote pronuncia. Autore della vita, Dio è anche l'autore di tutto ciò che fa vivere. Necessario alla vita, il pane viene dunque da Lui, è uno dei suoi molteplici doni. È questo che il sacerdote riconosce. Prendendo il pane nelle sue mani, bene-dice Dio, dice bene di Lui, perché ci dona ogni giorno il pane che fa vivere.
“... frutto della terra e del lavoro dell'uomo ...”. Per fare il pane è necessaria la fecondità della terra.
Bisogna che il grano sia seminato. Ci vogliono l'acqua e il sole. Ma ci vuole anche il lavoro dell'uomo e della donna. Quanti gesti di uomini e di donne sono richiesti per e il pane e per mettersi un boccone di pane sotto i denti.
Quanti gesti, da quello del seminatore fino a quello della madre o del padre di famiglia che taglia il pane prima di metterlo sulla tavola.
“…lo presentiamo a te...”. Quando vediamo qualcuno che uscendo dall'assemblea porta il pane all'altare, quando vediamo il sacerdote prendere il pane nelle sue mani per presentarlo a Dio, pensiamo che sono tutte le ricchezze del mondo, tutte le attività e tutte le vite umane che sono offerte a Dio.
Rendiamoci conto che è la nostra vita, come pure la vita delle persone che amiamo, che viene posta sotto lo sguardo di Dio.
“…perché diventi per noi cibo di vita eterna”. Sono le ultime parole della preghiera che il sacerdote pronuncia. Indicano quale sarà il destino del pane offerto sull'altare.Il pane degli uomini diventerà pane di Dio.

IL PANE AZZIMO
La legislazione attuale della chiesa richiede che l'Eucaristia sia celebrata con pane azzimo (cf. can. 926 del Codice di Diritto Canonico: “Nella celebrazione eucaristica, secondo l'antica tradizione della chiesa latina, il sacerdote usi pane azzimo, ovunque egli celebri”).
Non fu sempre così. A metà del II secolo, per esempio, san Giustino segnala che i cristiani portano all'altare del pane cotto nelle loro case. Era sicuramente del pane lievitato. Fino al secolo XI si accettava per la celebrazione della Messa sia il pane azzimo sia quello lievitato.
La consuetudine generalizzata di servirsi soltanto del pane azzimo risale in Occidente alla metà del secolo XI.
Per quale motivo il pane lievitato è stato sostituito poco a poco dal pane azzimo?
l. L'esempio di Cristo ha avuto certamente il suo peso. Secondo gli evangelisti Matteo (26,17), Marco (14,12) e Luca (22,8) l'ultima cena fu un banchetto pasquale. Ora questo pasto era celebrato con pane azzimo, in ricordo della notte in cui gli ebrei, dovendo fuggire in fretta dall'Egitto, non ebbero il tempo di far lievitare il loro pane.
2. In riferimento a un testo di san Paolo (1 Cor 5,6-8) si pensò che il pane lievitato era meno conveniente di quello azzimo per l'Eucaristia, perché conteneva un elemento di corruzione. Il che è vero: il pane lievitato si deteriora molto più rapidamente del pane azzimo.
3. Poi venne il secolo XII. In quest'epoca il rispetto portato all'Eucaristia si amplifica e diventa molto minuzioso. Si sta attenti che nessuna particella di pane cada a terra. Essendo meno friabile e più leggero del pane lievitato, il pane azzimo era dunque giudicato preferibile per la celebrazione della Messa. Si considerava anche che con il pane azzimo era molto più facile fabbricare ostie belle bianche, segno della purezza della nostra offerta. Il pane azzimo favoriva infine la confezione in grande numero delle piccole ostie destinate ai fedeli. Non è impossibile che un giorno sia di nuovo permesso l'uso del pane lievitato. Ma ci saranno sempre delle buone ragioni per impiegare il pane azzimo:
l. L'Eucaristia è un banchetto pasquale. Utilizzare il pane azzimo è un buon modo per ricordarcelo;
2. L'Eucaristia è segno d'unità. Ora in Oriente si mantiene la tradizione del pane azzimo.Adoperandolo anche noi, significhiamo la nostra unione con l'Oriente cristiano;
3. L'Eucaristia non è un pasto come gli altri. L'uso di un pane speciale sottolinea il carattere particolare del banchetto eucaristico.

C'E’ ANCHE IL VINO
Quando pensiamo all'Eucaristia pensiamo anzitutto al pane, meno spesso al vino.
Senza dubbio è perché generalmente facciamo la comunione col pane eucaristico, ma non con il vino. Tuttavia non bisogna dimenticare il vino. Nell'ultima cena Gesù gli ha dato tanta importanza quanta al pane. Anche oggi non si può celebrare l'Eucaristia se non si ha il vino. Il simbolismo del vino è estremamente ricco. In breve diciamo che attira la nostra attenzione in due direzioni principali.
1. Il vino - soprattutto quando è rosso - evoca il sangue. Non ci stupiamo allora che Gesù, prendendo la coppa del vino nelle sue mani, abbia detto: “Questo è il mio sangue”. E aggiunse: “... il sangue della nuova alleanza”. La prima alleanza - quella antica - era stata sigillata con il sangue. Dopo aver ucciso un animale, una parte del suo sangue era stata sparsa sull'altare (che rappresenta Dio). L'altra parte era stata aspersa sopra la folla. Quando si sa che il sangue è simbolo della vita, si coglie
immediatamente il senso di questo rito. Esso significa che, d'ora innanzi, grazie all'alleanza stabilita, Dio e il suo popolo saranno uniti strettamente. Vivranno d'una medesima vita, d'un medesimo sangue. Cristo ha versato il suo sangue, la sua vita, perché un'alleanza nuova ed eterna sia stabilita tra Dio e noi.
2. Il vino è anche un simbolo di festa e di gioia. Esso “rallegra il cuore dell'uomo”, dice la Scrittura (Sal 103,15). Fa dimenticare le pene e la pesantezza della vita. Scioglie le lingue e aiuta a fraternizzare. Lo si fa scorrere abbondante nei giorni di nozze e negli anniversari.
Quando Gesù ha voluto far intravedere ciò che sarà la vita in paradiso, non ha esitato a prendere l'immagine delle nozze (Mt 22,1-14). Si immagina volentieri che, come a Cana, il cibo e il vino non mancheranno.
Il vino dell'Eucaristia rinvia dunque al paradiso. Ci ricorda che siamo commensali di una festa. Invita a vivere nella gioia.

L'ACQUA UNITA AL VINO
La sera dell'ultima cena Gesù ha mescolato il vino con un po' d'acqua? È possibile, ma nessun documento permette di affermarlo con sicurezza. Dopo il II secolo, tuttavia, questa pratica è chiaramente attestata e perfino messa in evidenza. Il senso dato a questo rito è molto bello. Si tratta di manifestare che Cristo (rappresentato dal vino) e la Chiesa (significata
dall’acqua) sono strettamente uniti per l’offerta della Messa. Cristo non si offre da solo, si unisce alla Chiesa di cui è il capo. La Chiesa non si offre indipendentemente o a fianco di Cristo, ma si presenta al Padre con Cristo-capo, di cui si rallegra e si onora di essere il corpo.
“Se qualcuno offre soltanto vino, scriveva san Cipriano all'inizio del III secolo, il sangue di Cristo si trova ad essere senza di noi; se si offre soltanto acqua, è il popolo che si trova a essere senza Cristo” (Lettera 63, a Cecilio).
Un altro significato merita pure di essere sottolineato, benché sia meno frequente. Il vino e l'acqua, dirà sant'Ambrogio (secolo IV), significano il sangue e l'acqua che sono scaturiti dal cuore di Gesù sulla croce. Dunque avremmo qui un simbolo della fecondità della Messa, che prolunga e applica all'umanità la fecondità della croce.
In Oriente si è sviluppata una terza interpretazione: il vino e l'acqua rappresentano per gli orientali la natura umana e la natura divina di Cristo. Siamo dunque davanti ad una ricchezza molto grande e a una bella diversità di significati. Non si tratta di prenderne uno e rifiutare gli altri. È meglio lasciare che questo rito si dispieghi in tutti i suoi aspetti: facciamoci guidare da essi per giungere ad una comprensione più profonda del mistero.
Le parole che il sacerdote pronuncia quando versa un po’ d’acqua nel vino indicano tuttavia il significato che la chiesa oggi privilegia. “L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”.

IL CALICE
Salvo casi di grande necessità, il sacerdote non versa il vino in un vaso qualsiasi. Si serve di una coppa di bella qualità: il calice. Da sempre gli artisti ne confezionano di agnifici. È importante riflettere un momento sul significato del calice nella Messa: non da un punto di vista estetico, ma simbolico.
Si pensa anzitutto alle parole di Gesù nel Getsemani: “Padre, allontana da me questo calice!” (Mc 14,36). Il calice di cui si parla è quello della sofferenza, dell'agonia e della morte. Non facile da vivere, da bere! Gesù tuttavia dirà: “Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).
Un altro riferimento che ci viene spontaneo alla memoria, è quella parola di Gesù ai due discepoli che domandavano di sedere alla sua destra e alla sua sinistra: “Potete bere il calice che io bevo?”, dirà loro (Mc 10,38). Il che significa: “Potete partecipare al mio destino? Potete vivere la passione che sto per vivere?”.
Presentare il calice nella Messa e bere da esso è dunque manifestare la propria volontà di prender parte alla passione di Cristo. Con Cristo e come Lui, è dire al Padre: “Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”.
Il calice ha un altro significato. È segno di vittoria, di fraternità e di gioia. Alziamo i bicchieri, leviamo il calice per celebrare un battesimo, un matrimonio, un anniversario.
Durante l'ultima cena Gesù ha reso grazie al Padre sopra il calice. In collegamento con esso ha evocato il banchetto eterno: “Vi dico che da questo momento non berrò più il frutto della vite, finché non venga il regno di Dio” (Lc 22,18). Il calice che richiama la sofferenza e la morte, richiama dunque anche la vittoria sulla sofferenza e la morte. Accettando di bere il calice che suo Padre gli presentava, Gesù non si è risparmiato le sofferenze, ma si è anche guadagnato la risurrezione.
Nella Messa ci è proposto di bere al calice di Cristo, cioè di partecipare alla sua sorte: alla sua morte che ha condotto alla sua risurrezione.