ALLELUIA
Tutti i popoli hanno il loro modo di manifestare la gioia e di acclamare i loro eroi. Nel nostro mondo occidentale c'è l'abitudine di alzarci in piedi, di
applaudire e gridare “urrah”, e “bravi”. Anche la liturgia ha il suo modo per acclamare e adopera delle parole particolari per farlo.
La più preziosa, la più tradizionale e certamente la più ricca è “Alleluia”.
“Alleluia” è composto da due parole ebraiche: “allelu”, che vuol dire “lodate”, e “ja”, una abbreviazione di Jahvè, cioè Dio.
La parola Alleluia significa dunque: “Che Dio sia lodato!” oppure: “Lode a Dio!”.
Nel libro dell'Apocalisse si dice che nel cielo i santi rendono gloria a Dio cantando “Alleluia” senza mai stancarsi (19, 1.3.4). Non può stupire
dunque che da molto tempo nella nostra liturgia si adoperi anche la parola “Alleluia”.
A questo riguardo è interessante sapere che l'Alleluia è stato cantato dapprima durante la notte pasquale, prima di proclamare il Vangelo della risurrezione. Ancor oggi lo si canta nel medesimo momento durante la veglia pasquale, con una solennità tutta particolare.
Niente di più normale, perché se c'è un motivo di lodare Dio, è proprio quello di aver risuscitato Gesù, di averlo fatto passare dalla morte alla vita.
Eccetto il tempo di Avvento e di Quaresima, che sono tempi di austerità, si canta l'Alleluia nella Messa, prima di proclamare il Vangelo.
Il senso di questo “Alleluia” è molto chiaro. Si tratta di acclamare Dio come un eroe. è come se si dicesse: “Sii lodato Dio, perché il Figlio tuo ci viene a parlare nel Vangelo! Lode a te per la gioiosa notizia del Vangelo! Lode a te per le parole di vita e di luce che stiamo per ascoltare!”.
“Acclamazione” è sinonimo di grido di gioia, di festa.
Un’acclamazione recitata perde il suo significato e la sua funzione. A nessuno è mai venuto in mente, in qualche cerimonia civile, di recitare l’inno nazionale perché non si può cantare!
Tant’è vero che le norme del Messale dicono che quando il versetto e l’Alleluia non si cantano, si possono tralasciare.
IN PIEDI PER IL VANGELO
Durante la Messa siamo seduti alla proclamazione della prima e della seconda lettura. Lo stesso avviene durante il canto o la recita del salmo responsoriale. Ma ci alziamo in piedi quando comincia l'Alleluia e restiamo in piedi durante l'annuncio del Vangelo.
Perché si sta seduti durante le prime due letture e si sta in piedi per il Vangelo? È facile rispondere a questa domanda. Si può dire che ci alziamo in piedi per la proclamazione e l'ascolto del Vangelo, perché questa lettura è più importante delle altre. Giustissimo. I Vangeli contengono le parole stesse di Gesù. È Gesù in persona che si rivolge a noi, quando si leggono i Vangeli in chiesa. Essi tengono viva la memoria dei fatti e dei gesti di Gesù. Restando in piedi durante questa lettura, manifestiamo la grandissima venerazione che abbiamo per Gesù, per le sue parole, per tutto quello che ha fatto. Si può aggiungere, inoltre, che stare in piedi è un
segno di salute e di vita, un segno di dignità e di vittoria.
I vinti e i morti sono per terra. I vivi e i vincitori sono in piedi. In generale la posizione in piedi dice che, grazie a Gesù, siamo degli esseri riscattati, risuscitati, salvati. Con la sua vittoria sulla morte e il peccato, Gesù ha fatto di noi degli esseri in piedi. Le parole del Vangelo sono per noi parole di salvezza, dunque è giusto
essere in piedi mentre sono proclamate. Queste parole ci fanno passare dalla morte alla vita. Ci fanno esseri viventi. Grazie all'effetto che hanno in noi, possiamo stare saldamente in piedi e camminare coraggiosamente e con gioia verso la terra promessa, verso il regno di Dio. Essere in piedi! Un segno di rispetto. In piedi: la posizione dei risuscitati. In piedi: l'atteggiamento dei cristiani, che sanno di essere diventati figli e figlie di Dio per mezzo di Gesù.
LODE A TE, O CRISTO
Di solito, per indicare la fine della prima o della seconda lettura appena proclamata, il lettore pronuncia la frase: “Parola di Dio”. Tutti rispondono:
“Rendiamo grazie a Dio”. Al momento della lettura del Vangelo, si procede con maggiore ampiezza. A causa della sua importanza, questo testo è preceduto da un annuncio solenne: “Dal Vangelo secondo Giovanni, o Luca …”. Il popolo risponde: “Gloria a te, Signore”. Alla fine della proclamazione, il sacerdote o il diacono conclude dicendo: “Parola del Signore”, cui segue la risposta dell'assemblea: “Lode a te, o Cristo”. E facile notarlo: ogni volta la nostra lode si rivolge a qualcuno: a Dio, al Signore, a Cristo. Anche se hanno preso la parola, non sono il signor X o la signora Y, il reverendo parroco o il diacono che ricevono gli omaggi, ma è sempre Dio stesso o suo Figlio Gesù. Il concilio Vaticano II ha messo bene in evidenza questa realtà fondamentale: quando si legge la Scrittura nella messa, è Dio che parla, è Cristo che si fa sentire. “Cristo è presente nella sua parola - è scritto nella costituzione sulla liturgia (n. 7) - poiché è Lui che parla mentre vengono lette in chiesa le Sacre Scritture”. Questa affermazione è ben lungi dall'essere banale. Attira la nostra attenzione sul fatto non solamente che i testi della Bibbia sono di una estrema attualità, ma sul fatto che ancor oggi Dio s'impegna personalmente nella sua Parola. Viene Lui stesso a ridarle vita e a farla risuonare nel cuore della nostra assemblea. Il lettore o la lettrice presta la sua voce a Dio, ma è veramente Dio che parla. Questa presenza di Cristo nella sua Parola è reale - benché in modo diverso - tanto quanto la sua presenza sotto i segni del pane e del vino.
UNA PAROLA EFFICACE
“Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata”. Questo testo, preso dal libro del profeta Isaia (55,10-11), si applica alla Parola di Dio che viene proclamata in chiesa. Questa Parola non è mai una parola vuota, ma piena di sostanza. Non si disperde nel vento, ma è efficace.
Tutto ciò che annuncia, lo può compiere.
La Parola di Dio possiede questa capacità di illuminare, confortare, dare gioia, trasformare, rinvigorire, consolare, guarire, nutrire, far rivivere, donare coraggio e pazienza, portare pace e rendere il credente forte e fedele nei momenti difficili. Sì, è una parola efficace. Ma questa efficacia non è automatica. È necessario adempiere ad una condizione, perché si realizzi. La condizione è che l'ascoltatore, uomo o donna, si lasci raggiungere dalla Parola, le apra il cuore, le dia la possibilità di agire, si lasci pervadere da essa. La parabola del seminatore è attuale ogni giorno. Anche nella nostra epoca, come ai tempi di Gesù, la Parola cade in terreno roccioso, sulle spine o sulla buona terra (Mt 13,3-9.18-23).
Se qualcuno ascolta la Parola di Dio con un orecchio disattento, non accadrà niente. Se l'ascolta attentamente, ma senza credere a ciò che dice, non accadrà niente. Se i suoi orecchi sono aperti, ma il cuore è chiuso, anche allora non accadrà niente. Se trova che la Parola di Dio si applica meravigliosamente agli altri, ma non a se stesso, non gli servirà a niente.
La Parola di Dio è efficace, senza dubbio. Ma ciascuno può impedire che lo sia per lui e dentro di lui. Dio ha dato alla sua creatura questo potere di mettere ostacoli alla sua Parola.
DALLA GENESI ALL'APOCALISSE
La Genesi è il primo libro della Bibbia, l'Apocalisse l'ultimo. Il libro della Genesi parla della creazione, il libro dell'Apocalisse s'interessa molto alla fine dei tempi. Oltre a questi due libri, la Bibbia comprende tutti i libri dell'Antico e tutti quelli del Nuovo Testamento.
In totale 72 libri: 27 per il Nuovo, 45 per l'Antico Testamento. Di domenica in domenica, in chiesa si legge qualche brano di uno o dell'altro di questi libri. Occorrono tre anni per completare l'insieme delle letture (anche se non tutte le pagine della Bibbia vengono lette).
Non basta che i libri siano letti. Non basta far risuonare le parole di Dio che contengono.
Bisogna anche che quelli che ascoltano la Scrittura, vi aderiscano. Alla Parola di Dio, che viene proclamata, deve corrispondere la nostra parola di credenti, che riconoscono la veracità, la bellezza e la ricchezza di ciò che Dio dice. Durante la Messa, uno dei momenti più espliciti e più forti di adesione alla Parola di Dio è la proclamazione del Credo o del Simbolo. La parola simbolo viene dal greco e significa “mettere insieme” o “riassumere”. Il Simbolo o Credo mette insieme e riassume l'essenziale della Parola di Dio contenuta nella Bibbia. Proclamando il Credo, i cristiani esprimono la loro adesione e la loro fede in tutto
quello che è contenuto nella Scrittura, dal libro della Genesi a quello dell'Apocalisse. È interessante notare che l'inizio del Credo evoca in modo particolare il contenuto del libro della Genesi, poiché parla della creazione (“Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra...”). La conclusione del Credo si riferisce specialmente al libro dell'Apocalisse, poiché si parla della fine dei tempi (“Credo... la risurrezione della carne, la vita eterna. Amen”). Proclamare il Credo è dunque dire di sì a tutta la Parola di Dio, a tutta la rivelazione, all'intero contenuto della Bibbia. Dicendo “Credo in Dio… “non intendo semplicemente: credo che Dio esiste, ma: credo in Lui, cioè mi dono, mi abbandono, mi affido, aderisco a Lui. Il Credo ha la sua origine nella triplice interrogazione e nella triplice risposta che veniva fatta al catecumeno (adulto) prima del battesimo (e che nel caso del battesimo di bambini viene fatta ai genitori e padrini). Recitare il Credo è un segno di riconoscimento della fede di tutti i cristiani e nello stesso tempo il ricordo a ciascuno del proprio battesimo.
“OGGI SI COMPIE QUESTA PAROLA”
Dopo la proclamazione delle letture, il sacerdote pronuncia l'omelia. “Omelia” vuol dire discorso semplice; è un prendere la parola in modo familiare. Circa nell'anno 150 san Giustino spiegava in questi termini che cos’era l'omelia: “Quando il lettore ha terminato le letture, colui che presiede prende la parola ed esorta a imitare questi buoni insegnamenti”(Apologia 1,67). Un'omelia ben fatta dovrebbe riscaldare il cuore e risvegliare il coraggio dei credenti. Stimolare a mettere in pratica il Vangelo. Far vedere com'è bello e giusto camminare dietro a Gesù Cristo. Un esempio straordinario di omelia ci è stato dato da Gesù stesso. Si era nella sinagoga in giorno di sabato, racconta l'evangelista san Luca (4,16-22). Gesù fu invitato a leggere la Scrittura e poi a commentarla, cioè a fare l'omelia. Dopo aver letto quel brano d'Isaia dove è scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me... mi ha mandato per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista. Mi ha mandato per rimettere in libertà gli oppressi” (Is 61,1-2), Gesù si espresse in questi termini:
“Oggi si è adempiuta questa Scrittura, che voi avete udito con i vostri orecchi”.
Eccellente omelia! Breve, incisiva, avvincente da ascoltare. Certamente nessuno ha rischiato di addormentarsi! Peccato non sia ripetibile! L'omelia ha per scopo di annunciare buone notizie alle persone venute a celebrare l'Eucaristia. Mira a far vedere che tutto ciò che Dio ha realizzato nel passato per il bene del mondo, lo realizza ancor oggi. Deve ravvivare la speranza e dare il gusto di vivere. Non è facile essere bravi a fare l'omelia. Ma perché l'omelia sia buona e se ne tragga profitto, bisogna che ciascun fedele vi metta qualcosa di suo. Un giorno una buona e santa donna diceva ad un sacerdote: “Anche quando l'omelia è veramente banale, mi sforzo di cercare una parola, un'idea che mi tocchi e m'interpelli... e ne trovo sempre!”. In conclusione: l'omelia è prima di tutto un compito del sacerdote, certamente. Ma, almeno in parte, è anche compito di quelli che ascoltano.
Ciascuno deve fare il suo pezzo di strada.
LA LITURGIA DELLA PAROLA:UN DIALOGO TRA DIO E IL SUO POPOLO
Abbiamo fatto qualche riflessione su ciascuno dei riti della liturgia della Parola: etture, salmo, acclamazioni, omelia, professione di fede e preghiera universale...
Terminiamo con una piccola sintesi, interrogandoci con la domanda seguente: perché vengono messi in opera questi riti? Qual è il loro intento profondo?
La risposta a questa domanda è semplice: la liturgia della Parola ha lo scopo di stabilire un dialogo tra Dio e il suo popolo. Lo si vede chiaramente quando si esamina come è organizzata questa parte della Messa. Da una parte c'è Dio che parla, dall'altra l'assemblea che risponde. Nel momento in cui si proclamano le letture, evidentemente è Dio che si esprime. È ancora Lui che parla quando il sacerdote fa l'omelia, poiché questa ha per funzione soprattutto di far vedere l'attualità e la pertinenza della Parola di Dio. Invece quando si canta il salmo o lo si legge, è l'assemblea che risponde a Dio.
Le acclamazioni (Gloria a te, Signore, o Lode a te,
o Cristo) sono anch'esse risposte date alla Parola.È chiaro che la professione di fede, recitata insieme dai fedeli, costituisce una risposta esplicita e solenne a quello che Dio ha annunciato.
Anche la preghiera universale deve essere considerata come una risposta alla Parola. In questo caso il popolo risponde domandando che quello che è stato annunciato si realizzi a vantaggio di tutte le persone che vivono sulla terra.
La liturgia della Parola è dunque strutturata in modo che ci sia una proposta da parte di Dio e una risposta da parte dell'assemblea.
LE DUE MENSE
Nella Messa c'è un solo altare, ma ci sono due mense: la mensa della Parola e la mensa del sacrificio, la mensa dove viene proclamata la lieta notizia della salvezza e quella dove Cristo si dona per il compimento della nostra salvezza. Se si parla dell'altare come di una mensa, il motivo evidente è perché vi è deposto il pane e il vino, nutrimento e bevanda. Ma si deve parlare anche della mensa della Parola, perché la Parola di Dio si mangia come il pane e si beve come acqua pura.
Nel deserto Gesù ha detto: “Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4). Molto impressionante è anche quel testo in cui Dio domanda al profeta Ezechiele di mangiare il libro della Parola di cui deve annunciare il messaggio: “Il Signore mi disse: "Figlio dell'uomo, mangia ciò che hai davanti, mangia questo rotolo, poi va' e parla alla casa d'Israele” (Ez 3,1). È interessante notare che Cristo, che si dona come cibo sotto il segno del pane, si chiama il
Verbo: la Parola! Ciò significa che è buono da mangiare, come è buona ogni parola che viene da Dio. Per assimilare pienamente Cristo e diventare suoi intimi, bisogna nutrirsi sia della Parola come del pane. La Parola e il pane si completano l'un l'altro. Tutti e due sono necessari.
Nella Messa c'è dapprima il tempo della Parola, poi viene quello del pane. Questi due tempi si richiamano reciprocamente. Quando ascoltiamo la Parola e l'accogliamo nei nostri cuori, ci comunichiamo già al corpo di Cristo. Quando portiamo alla bocca il pane consacrato, ci nutriamo nuovamente del Verbo di Dio.
La liturgia della Parola è il primo tempo dell'alleanza che l'Eucaristia viene a stringere tra Dio e il suo popolo. La liturgia del pane è il secondo tempo. Ma c'è una sola alleanza, una sola Eucaristia, come ha affermato chiaramente il concilio Vaticano II: “La liturgia della Parola e la liturgia eucaristica sono congiunte tra di loro così strettamente da formare un solo atto di culto” (Costituzione sulla liturgia, n. 56).
I QUATTRO TEMPI DELLA LITURGIA EUCARISTICA
Dopo la liturgia della Parola, che termina con la preghiera universale, inizia la liturgia eucaristica. Questa parte della Messa comporta quattro tempi, che corrispondono alle quattro azioni compiute da Cristo la sera dell'ultima cena.
Cosa dicono i Vangeli a questo riguardo? Affermano che Gesù prese anzitutto del pane, poi che un po' più tardi prese del vino. Prendere del pane e del vino nelle sue mani è la prima azione compiuta da Gesù. Facciamo la stessa cosa nella Messa. Portiamo all'altare del pane e del vino e il sacerdote, come Gesù, li prende nelle sue mani. Questa prima parte della liturgia Eucaristica si chiama “Offertorio” o “Preparazione dei doni”.
Dopo aver preso il pane e il vino, Gesù li benedisse o, secondo un altro termine impiegato nei Vangeli, rese grazie sopra di essi. Facciamo la stessa cosa durante la Messa.
A nome nostro, a nome di tutta la Chiesa e in unione con Gesù, il sacerdote pronuncia una lunga preghiera con la quale benedice il pane e il vino, rendendo grazie su di
loro. Questa seconda parte della liturgia eucaristica si chiama “Preghiera Eucaristica”.
Dopo aver benedetto il pane, Gesù lo spezzò in tanti pezzi quanti erano i discepoli. Anche il sacerdote, come Gesù, sta per spezzare il pane. Una volta, con l'aiuto dei diaconi, spezzava diversi pani in molti pezzi. Oggi si limita molto spesso a spezzare soltanto la grande ostia, anche se sarebbe più giusto e più significativo che ogni fedele ricevesse un “pezzo” del pane consacrato e non semplicemente una particola. Questa terza parte della liturgia eucaristica si chiama “Frazione del pane”.
Infine, dopo aver spezzato il pane, Gesù lo distribuì ai suoi discepoli. Fece anche passare la coppa del vino in mezzo a loro. È il “Rito della Comunione”.
Corrisponde alla quarta azione compiuta durante l'ultima cena. “Fate questo in memoria di me”, aveva detto Gesù.
Duemila anni dopo la sua morte e risurrezione noi siamo fedeli al suo comando. Rifacciamo esattamente quello che ci ha detto di fare.
PRESE IL PANE
Durante l'ultima cena Gesù prese del pane. Anche noi ne prendiamo per celebrare l'Eucaristia. Prendere il pane non è un gesto puramente utilitario, ma un gesto ricco di senso e profondamente simbolico.
Per scoprire il senso di questo gesto, la cosa più semplice è di riferirci alla preghiera che il sacerdote pronuncia quando prende il pane nelle sue mani.
“Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane...”. Sono le prime parole che il sacerdote pronuncia. Autore della vita, Dio è anche l'autore di tutto ciò che fa vivere. Necessario alla vita, il pane viene dunque da Lui, è uno dei suoi molteplici doni. È questo che il sacerdote riconosce. Prendendo il pane nelle sue mani, bene-dice Dio, dice bene di Lui, perché ci dona ogni giorno il pane che fa vivere.
“... frutto della terra e del lavoro dell'uomo ...”. Per fare il pane è necessaria la fecondità della terra.
Bisogna che il grano sia seminato. Ci vogliono l'acqua e il sole. Ma ci vuole anche il lavoro dell'uomo e della donna. Quanti gesti di uomini e di donne sono richiesti per e il pane e per mettersi un boccone di pane sotto i denti.
Quanti gesti, da quello del seminatore fino a quello della madre o del padre di famiglia che taglia il pane prima di metterlo sulla tavola.
“…lo presentiamo a te...”. Quando vediamo qualcuno che uscendo dall'assemblea porta il pane all'altare, quando vediamo il sacerdote prendere il pane nelle sue mani per presentarlo a Dio, pensiamo che sono tutte le ricchezze del mondo, tutte le attività e tutte le vite umane che sono offerte a Dio.
Rendiamoci conto che è la nostra vita, come pure la vita delle persone che amiamo, che viene posta sotto lo sguardo di Dio.
“…perché diventi per noi cibo di vita eterna”. Sono le ultime parole della preghiera che il sacerdote pronuncia. Indicano quale sarà il destino del pane offerto sull'altare.Il pane degli uomini diventerà pane di Dio.
IL PANE AZZIMO
La legislazione attuale della chiesa richiede che l'Eucaristia sia celebrata con pane azzimo (cf. can. 926 del Codice di Diritto Canonico: “Nella celebrazione eucaristica, secondo l'antica tradizione della chiesa latina, il sacerdote usi pane azzimo, ovunque egli celebri”).
Non fu sempre così. A metà del II secolo, per esempio, san Giustino segnala che i cristiani portano all'altare del pane cotto nelle loro case. Era sicuramente del pane lievitato. Fino al secolo XI si accettava per la celebrazione della Messa sia il pane azzimo sia quello lievitato.
La consuetudine generalizzata di servirsi soltanto del pane azzimo risale in Occidente alla metà del secolo XI.
Per quale motivo il pane lievitato è stato sostituito poco a poco dal pane azzimo?
l. L'esempio di Cristo ha avuto certamente il suo peso. Secondo gli evangelisti Matteo (26,17), Marco (14,12) e Luca (22,8) l'ultima cena fu un banchetto pasquale. Ora questo pasto era celebrato con pane azzimo, in ricordo della notte in cui gli ebrei, dovendo fuggire in fretta dall'Egitto, non ebbero il tempo di far lievitare il loro pane.
2. In riferimento a un testo di san Paolo (1 Cor 5,6-8) si pensò che il pane lievitato era meno conveniente di quello azzimo per l'Eucaristia, perché conteneva un elemento di corruzione. Il che è vero: il pane lievitato si deteriora molto più rapidamente del pane azzimo.
3. Poi venne il secolo XII. In quest'epoca il rispetto portato all'Eucaristia si amplifica e diventa molto minuzioso. Si sta attenti che nessuna particella di pane cada a terra. Essendo meno friabile e più leggero del pane lievitato, il pane azzimo era dunque giudicato preferibile per la celebrazione della Messa. Si considerava anche che con il pane azzimo era molto più facile fabbricare ostie belle bianche, segno della purezza della nostra offerta. Il pane azzimo favoriva infine la confezione in grande numero delle piccole ostie destinate ai fedeli. Non è impossibile che un giorno sia di nuovo permesso l'uso del pane lievitato. Ma ci saranno sempre delle buone ragioni per impiegare il pane azzimo:
l. L'Eucaristia è un banchetto pasquale. Utilizzare il pane azzimo è un buon modo per ricordarcelo;
2. L'Eucaristia è segno d'unità. Ora in Oriente si mantiene la tradizione del pane azzimo.Adoperandolo anche noi, significhiamo la nostra unione con l'Oriente cristiano;
3. L'Eucaristia non è un pasto come gli altri. L'uso di un pane speciale sottolinea il carattere particolare del banchetto eucaristico.
C'E’ ANCHE IL VINO
Quando pensiamo all'Eucaristia pensiamo anzitutto al pane, meno spesso al vino.
Senza dubbio è perché generalmente facciamo la comunione col pane eucaristico, ma non con il vino. Tuttavia non bisogna dimenticare il vino. Nell'ultima cena Gesù gli ha dato tanta importanza quanta al pane. Anche oggi non si può celebrare l'Eucaristia se non si ha il vino. Il simbolismo del vino è estremamente ricco. In breve diciamo che attira la nostra attenzione in due direzioni principali.
1. Il vino - soprattutto quando è rosso - evoca il sangue. Non ci stupiamo allora che Gesù, prendendo la coppa del vino nelle sue mani, abbia detto: “Questo è il mio sangue”. E aggiunse: “... il sangue della nuova alleanza”. La prima alleanza - quella antica - era stata sigillata con il sangue. Dopo aver ucciso un animale, una parte del suo sangue era stata sparsa sull'altare (che rappresenta Dio). L'altra parte era stata aspersa sopra la folla. Quando si sa che il sangue è simbolo della vita, si coglie
immediatamente il senso di questo rito. Esso significa che, d'ora innanzi, grazie all'alleanza stabilita, Dio e il suo popolo saranno uniti strettamente. Vivranno d'una medesima vita, d'un medesimo sangue. Cristo ha versato il suo sangue, la sua vita, perché un'alleanza nuova ed eterna sia stabilita tra Dio e noi.
2. Il vino è anche un simbolo di festa e di gioia. Esso “rallegra il cuore dell'uomo”, dice la Scrittura (Sal 103,15). Fa dimenticare le pene e la pesantezza della vita. Scioglie le lingue e aiuta a fraternizzare. Lo si fa scorrere abbondante nei giorni di nozze e negli anniversari.
Quando Gesù ha voluto far intravedere ciò che sarà la vita in paradiso, non ha esitato a prendere l'immagine delle nozze (Mt 22,1-14). Si immagina volentieri che, come a Cana, il cibo e il vino non mancheranno.
Il vino dell'Eucaristia rinvia dunque al paradiso. Ci ricorda che siamo commensali di una festa. Invita a vivere nella gioia.
L'ACQUA UNITA AL VINO
La sera dell'ultima cena Gesù ha mescolato il vino con un po' d'acqua? È possibile, ma nessun documento permette di affermarlo con sicurezza. Dopo il II secolo, tuttavia, questa pratica è chiaramente attestata e perfino messa in evidenza. Il senso dato a questo rito è molto bello. Si tratta di manifestare che Cristo (rappresentato dal vino) e la Chiesa (significata
dall’acqua) sono strettamente uniti per l’offerta della Messa. Cristo non si offre da solo, si unisce alla Chiesa di cui è il capo. La Chiesa non si offre indipendentemente o a fianco di Cristo, ma si presenta al Padre con Cristo-capo, di cui si rallegra e si onora di essere il corpo.
“Se qualcuno offre soltanto vino, scriveva san Cipriano all'inizio del III secolo, il sangue di Cristo si trova ad essere senza di noi; se si offre soltanto acqua, è il popolo che si trova a essere senza Cristo” (Lettera 63, a Cecilio).
Un altro significato merita pure di essere sottolineato, benché sia meno frequente. Il vino e l'acqua, dirà sant'Ambrogio (secolo IV), significano il sangue e l'acqua che sono scaturiti dal cuore di Gesù sulla croce. Dunque avremmo qui un simbolo della fecondità della Messa, che prolunga e applica all'umanità la fecondità della croce.
In Oriente si è sviluppata una terza interpretazione: il vino e l'acqua rappresentano per gli orientali la natura umana e la natura divina di Cristo. Siamo dunque davanti ad una ricchezza molto grande e a una bella diversità di significati. Non si tratta di prenderne uno e rifiutare gli altri. È meglio lasciare che questo rito si dispieghi in tutti i suoi aspetti: facciamoci guidare da essi per giungere ad una comprensione più profonda del mistero.
Le parole che il sacerdote pronuncia quando versa un po’ d’acqua nel vino indicano tuttavia il significato che la chiesa oggi privilegia. “L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”.
IL CALICE
Salvo casi di grande necessità, il sacerdote non versa il vino in un vaso qualsiasi. Si serve di una coppa di bella qualità: il calice. Da sempre gli artisti ne confezionano di agnifici. È importante riflettere un momento sul significato del calice nella Messa: non da un punto di vista estetico, ma simbolico.
Si pensa anzitutto alle parole di Gesù nel Getsemani: “Padre, allontana da me questo calice!” (Mc 14,36). Il calice di cui si parla è quello della sofferenza, dell'agonia e della morte. Non facile da vivere, da bere! Gesù tuttavia dirà: “Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).
Un altro riferimento che ci viene spontaneo alla memoria, è quella parola di Gesù ai due discepoli che domandavano di sedere alla sua destra e alla sua sinistra: “Potete bere il calice che io bevo?”, dirà loro (Mc 10,38). Il che significa: “Potete partecipare al mio destino? Potete vivere la passione che sto per vivere?”.
Presentare il calice nella Messa e bere da esso è dunque manifestare la propria volontà di prender parte alla passione di Cristo. Con Cristo e come Lui, è dire al Padre: “Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”.
Il calice ha un altro significato. È segno di vittoria, di fraternità e di gioia. Alziamo i bicchieri, leviamo il calice per celebrare un battesimo, un matrimonio, un anniversario.
Durante l'ultima cena Gesù ha reso grazie al Padre sopra il calice. In collegamento con esso ha evocato il banchetto eterno: “Vi dico che da questo momento non berrò più il frutto della vite, finché non venga il regno di Dio” (Lc 22,18). Il calice che richiama la sofferenza e la morte, richiama dunque anche la vittoria sulla sofferenza e la morte. Accettando di bere il calice che suo Padre gli presentava, Gesù non si è risparmiato le sofferenze, ma si è anche guadagnato la risurrezione.
Nella Messa ci è proposto di bere al calice di Cristo, cioè di partecipare alla sua sorte: alla sua morte che ha condotto alla sua risurrezione.